POLLI A CRESCITA LENTA: PER MANGIARLI DOVETE SOLO ASPETTARE ANCORA UN PO’ …

Condividi

Una cosa va detta: l’impegno per aumentare il benessere degli animali destinati all’alimentazione umana è un tema trainante e di grande attualità che impegna sia chi si occupa di allevamenti sia chi, dichiarandosi animalista, pone obiezioni e organizza petizioni sui metodi di allevamento.

Ma andando nel dettaglio troviamo notevoli differenze “di interpretazione” e “di funzione” del termine “benessere animale”. Per fare un esempio molto attuale (ma poco conosciuto dai più) prendiamo il settore avicolo dove, da qualche tempo, si è sviluppato un particolare mercato “su richiesta”: quello del “pollo a crescita lenta”. La richiesta non è diretta, non è cioè del consumatore, ma è “di sponda”. Ha origine infatti da organizzazioni animaliste che, strutturandosi capillarmente a livello planetario, sono riuscite ad imporre che, oltre a quelli che normalmente troviamo al supermercato, siano resi disponibili anche polli che, anziché dopo 44 giorni, siano destinati alla filiera alimentare umana dopo 58. Sono quelli che trovate negli scaffali, fra i tanti altri, e identificabili praticamente solo dal prezzo e da qualche dicitura altisonante che spesso “fa rima con BIO”. Ma sappiamo cosa giustifica quel prezzo? E sappiamo che gli effetti collaterali di quella presenza sugli scaffali è tutt’altro che in linea con le logiche ambientaliste?

Ci sarà certo stato uno studio e delle motivazioni particolari per insistere affinché questo accadesse, ma sembra non sia rintracciabile altro che un atteggiamento ideologico, argomentato appunto con pretesti di nessuna concretezza e neppure di buonsenso. Che però ha avuto una certa presa anche su chi dovrebbe informarsi meglio prima di trarre le conclusioni. Teniamo infatti presente che si parla sempre di animali destinati al consumo alimentare umano. La funzione è sempre quella.

Tornando alla crescita lenta, forse non tutti sanno che gli allevamenti avicoli moderni iniziano la loro storia circa 60 anni fa, trasformando le fattorie che sopperivano in vario modo alle esigenze alimentari di poche famiglie, in strutture specializzate nel settore avicolo che, nel tempo, si sono evolute. Specializzarsi significa fare un mestiere che altri non fanno altrettanto bene e che, nel caso specifico del settore avicolo, si traduce nel gestire nel modo migliore l’obiettivo di mettere a disposizione di molte persone, costantemente, un certo numero di animali e uova migliorando costantemente fattori che non è facile far convivere come, per esempio, costi e qualità. Non si tratta più infatti di gestire un centinaio di animali, ma di fornirne una quantità sufficiente a rispondere alla domanda di tutti coloro che “nel mondo” cercano (banalizziamo per capirci) “un pollo da arrostire” o “le uova per la torta”.

Limitiamoci per ora al pollo, che ha una filiera diversa da quella delle uova.

La carne di pollo che oggi si trova in commercio deriva da animali selezionati in modo naturale: questo modo naturale viene definito “selezione genetica”, termine che -seppur possa evocare manipolazioni strane- in realtà consiste in una sistematica e attenta osservazione dei comportamenti di ogni animale allevato, per identificare –tra le altre cose- quello che “naturalmente” cresce come o più di altri, mangiando meno e bevendo meno degli altri in modo spontaneo. Ebbene quell’animale -e non altri- viene destinato alla riproduzione, di modo che i suoi “geni” possano trasferirsi ai suoi discendenti. E via così, di generazione in generazione.

Operando costantemente in questo modo si è giunti ad ottenere una selezione di animali con “pedigree” interessanti per gli scopi per cui vengono allevati. Che, nel nostro caso, è l’alimentazione umana. Quella che sul piano commerciale e nella vita di tutti i giorni si traduce in quel prezzo un tanto al chilo cui siamo abituati, per nutrirci bene spendendo possibilmente poco …  che nella stragrande maggioranza dei casi sono gli argomenti che interessano di più.

Il metodo di  selezione descritto è praticamente come quello utilizzato in molti altri casi che non consideriamo neppure. Come per i cavalli da corsa: il più veloce viene tenuto d’occhio e la riproduzione tramite il suo contributo è fatta per sperare nella nascita di altri campioni.

I polli che compriamo “pronti” sono definiti “da carne”: animali che certo hanno un destino segnato, ma che durante la loro vita vengono accuditi evitando loro shock, mantenendoli sani, protetti, alimentandoli con i migliori mangimi naturali e provvedendo alle loro naturali esigenze, checché ne dicano certi allarmisti. Ma questo è un altro tema di cui parlerò in altri articoli.

Continuiamo il discorso sulla crescita lenta e quella “normale”.

Con i costanti miglioramenti ottenuti con la selezione degli animali più forti e performanti (parità di crescita con minor consumo di mangime), utilizzando obiettivi di selezione equilibrati che considerano non solo l’efficienza, ma anche la salute e l’idoneità dell’animale, gli allevatori hanno potuto anche migliorare il cosiddetto “rapporto di conversione” di acqua e mangimi (a pari alimentazione maggiore crescita dell’animale). Questo percorso, seguito dagli allevamenti specializzati, produce un effetto che, se non viene considerato nel modo giusto, può passare inosservato e sottovalutato: la selezione genetica contribuisce infatti notevolmente a ridurre l’impronta ambientale della produzione alimentare migliorando costantemente l’efficienza e la vivibilità (diminuzione della mortalità) degli animali in questione. Non serve spiegare i benefici che porta consumare meno acqua; e allevare animali che necessitano di meno mangime porta a ridurre gli ettari di terreno coltivato a quello scopo.

Va da sè, anche senza entrare troppo nel tecnico, che l’introduzione della crescita lenta come alternativa da inserire negli scaffali, ha nei fatti costretto alcuni allevamenti a fare passi indietro di molti anni sul piano dell’impronta ambientale. Questo perché, non fosse subito evidente, gli animali a crescita lenta provengono da razze selezionate in modo diverso e rimanendo in azienda più a lungo consumano circa il 40% di acqua in più, incrementano la produzione di guano del 53% e secondo alcuni rapporti risulta che per disporre delle stesse quantità “di carne” con genotipi a crescita lenta sarà necessario il 68% in più di animali e –a causa di questo- il 128% in più di pollai. La quantità di mangime necessaria sarà del 97% in più e richiederà un aumento percentuale simile delle consegne tramite i camion. Lo smaltimento delle frattaglie aumenterà del 95 percento.

Dovrebbe bastare questo per evidenziare che, chi teoricamente agisce per il benessere degli animali forzando affinché gli allevamenti prevedano più “crescita lenta” definendoli “bio”, in realtà agisce in opposizione diretta agli sforzi degli scienziati agricoli impegnati per migliorare l’efficienza e ridurre l’impronta ambientale della produzione alimentare e aumentare la sostenibilità.

Alcuni di questi argomenti li potete trovare sul blog UC Davis BioBeef dell’autore Alison Van Eenennaam, genetista animale e specialista presso il Dipartimento di Scienze degli animali presso l’Università della California.

Pietro Greppi

Ethical advisor

info@ad-just.it

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *